domenica 25 gennaio 2009

Australia

Australia, 1939. La bella, raffinata (ma in egual misura anche determinata) Lady Sarah Ashley (Nicole Kidman) intraprende il lungo viaggio che la porterà dal Regno Unito al selvaggio continente australiano, fortemente intenzionata a riprendere le briglie sul marito e sulla sua proprietà, Faraway Downs, uno sperduto ranch nel cuore dell’Australia settentrionale. Una volta lì, non farà in tempo a ricredersi su molte delle “facili” certezze costruite nella propria, britannica, gabbia dorata, che dovrà letteralmente rimboccarsi le maniche per riuscire a farsi rispettare e far quadrare i conti non solo di Faraway Downs, ma della propria vita, o, per usare la terminologia del film, della propria storia. L’incontro con il mandriano senza nome (sarà sempre chiamato semplicemente “Drover”) interpretato da Hugh Jackman, e col piccolo meticcio Nullah (Brandon Walters), saranno la chiave di volta per una vera e propria rinascita per l’avvenente ma testardissima milady. Tra una transumanza e l’altra, nel singolare walzer di destini che si incrociano e di intrallazzi politico-commerciali, e con l’approssimarsi di un secondo conflitto mondiale solo apparentemente lontano, Lady Ashley è come se si trasfigurasse in una personalissima versione western della Dorothy de Il mago di Oz: lunga sarà infatti la sua epopea verso “il miglior posto che possa esistere: casa”.

L’Australia dipinta in questo film non è quella mediata dall’occhio statunitense che siamo abituati a pensare: quella dei vari Mr Crocodile Dundee per intenderci. Questa è l’Australia dipinta nei libri di Tim Winton o Sally Morgan, o che ritroviamo in film come Picnic a Hanging Rock, ovvero la colonia inglese più bistrattata, sfruttata e fraintesa nella sua essenza originaria fra tutte, i cui abitanti sono o discendenti dei galeotti qui deportati nel secolo precedente, o signorotti troppo attaccati alla propria cultura d’origine per potersi integrare davvero. Oltre ai nativi aborigeni, che subiscono la segregazione e la svalorizzazione delle proprie radici alla stregua dei “cugini” americani. E in mezzo a tutto questo, la cosiddetta generazione rubata, ovvero i mezzosangue nati dallo sfruttamento delle schiave di colore e sradicati a forza dalla propria culla d’origine per essere resi quello che non possono essere. Più di centomila bambini strappati alle proprie madri “in nome della civiltà”, e di cui Luhrmann si fa portavoce, tramite la centralissima figura di Nullah, il ragazzino che Lady Sarah vuole adottare. E’ proprio Nullah, per certi versi, il vero protagonista della storia, insieme al nonno sciamano. Incarna infatti lo spirito originale dell’Australia, così densa di naturali forze misteriose, incomprensibili, ma, al contempo, irresistibilmente affascinanti per l’uomo bianco.Comprendere e accettare la magia naturale degli aborigeni è focale per poter a sua volta carpire e accettare l’intero film: non a caso il regista ha voluto nel cast solo attori australiani, che hanno nel proprio dna la credenza al “dogma” dei misteri dell’outback, e non si sarebbero posti problemi nell’accettare situazioni che ad attori british e yankee sarebbero sicuramente parse un po’ forzate. Il ricorso ai poteri sciamanici e certe frasi ricorrenti suonano invero quasi ridicoli, anche per la loro importanza nella risoluzione di certi eventi, se non si è disposti a “crederci” per davvero. Soprattutto perché il film non è un action movie di fanta-archeologia ma un moderno film epico come non se ne vedono da decenni: le situazioni, lo stile, la regia non fanno infatti che ricordare i classici Casablanca, Via col Vento, Lawrence d’Arabia.

Quattro film (più uno incompiuto) in sedici anni: non si può certo dire che Baz Luhrmann sia un tipo frettoloso. Anzi, la cura che ha sempre mostrato nei suoi lavori, unita ad una sana dose di sperimentalismo, mista ad uno smisurato amore per i classici della propria infanzia, per il teatro e per il musical, hanno visibilmente segnato il suo cinema; a partire da Ballroom, passando per Romeo+Juliet, per arrivare al suo capolavoro, il tanto acclamato Moulin Rouge che gli ha valso imperitura fama internazionale. Ora, dopo una lunghissima fase di preproduzione, sei mesi di riprese, migliaia di veri animali più o meno selvatici lasciati a scorrazzare sulle sconfinate pianure dell’outback, il regista australiano è lieto (dalla pellicola si direbbe anzi fiero) di presentarci Australia, che, come al solito nel suo cinema, tende a mescolare il modo più classico di raccontare per immagini con il gusto per il musicale e il post-moderno. Con, sta volta, un fondamentale ingrediente in più: la ferrea volontà di omaggiare la propria terra natia per quella che è, e non per come è conosciuta da gran parte del pubblico.

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