mercoledì 9 maggio 2012

Battleship

Gli scienziati americani individuano il pianeta “G”, con caratteristiche simili alla Terra e potenziale presenza di vita al suo interno, e inviano un segnale di contatto da una postazione nelle Hawaii. Mentre la marina militare americana è in procinto di compiere un'esercitazione nel Pacifico, la risposta aliena arriva, pericolosissima, e dalle profondità siderali si tuffa in quelle oceaniche. Il marine Alex Hopper, fino a quel momento testardo e inconcludente, si ritrova a capitanare l'unica nave superstite nei dintorni e a dover prevenire ad ogni costo un'invasione globale della Terra.
Kolossal catastrofico, ispirato dal gioco della Hasbro, come già Transformers e G.I. Joe, e sceneggiato dalle penne di Red, Battleship non si fa mancare nulla: il ribelle coraggioso ma senza disciplina, che non conosce ancora cosa sia la leadership (un atto di solidarietà, per esempio), che ama corrisposto la bionda figlia del capo, e dovrà raccogliere l'eredità del fratello e sostituire il suo orizzonte di colluttazione con quello più utile di collaborazione. Ma non c'è solo Top Gun, nel meccanismo cardiaco di questo film, ci sono anche gli extraterrestri col tallone di Achille (stavolta non è il raffreddore ma un difetto di vista), il nerd quattrocchi (“l'avevo detto io”) e la corazzata Missouri, novant'anni dopo il Potemkin. Troppo? Probabilmente sì, anche perché si potrebbe continuare. Manipolando le dimensioni, il film di Peter Berg principia nello spazio aperto per arrivare man mano a quello angusto e corpo a corpo dei corridoi del cacciatorpediniere, rimbalzare quindi sul monitor di un computer e rifondare un piccolo nuovo mondo tutto su una nave, sfruttando la sapienza del passato (la vecchia ciurma) con l'umiltà acquisita nel presente e la missione di salvare il futuro. Quando l'operazione è così smaccata non ha nemmeno più senso parlare di retorica. È molto più interessante constatare come 2 più 2 non faccia 4: l'accumulo di elementi altrove funzionanti non dà la somma sperata e porta invece vicino alla parodia, che appunto ripropone elementi del testo che utilizza (in questo caso del genere cinematografico di riferimento) portandoli all'assurdo o ibridandoli con esso. Dall'ineffabile entrata in scena di Brooklyn Decker, ancora in un clima di tensione e di premessa narrativa apparentemente compunta, il film scivola lentamente lungo questa china farsesca fino a prenderne coscienza –pare- e cavalcare l'onda che ha alzato: dal momento in cui Kitsch, Rihanna e compagni mettono piede sulla corazzata, infatti, il gioco si fa scoperto e il commento musicale adottato lo testimonia. Il divertimento non manca, ma abbiamo visto “war games” migliori.