Canterò le mie canzoni per la strada e affronterò la vita a muso duro, un guerriero senza patria e senza spada con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro.
LA VITA QUASI PERFETTA
"Quante volte ve lo devo dire! La vita non è perfetta, le vite nei film sono perfette, belle o brutte, ma perfette, nei film non ci sono tempi morti, la vita è piena di tempi morti, nei film sai sempre come va a finire, nella vita non lo sai mai."
domenica 23 settembre 2012
Italia Loves Emilia - Campovolo - Reggio Emilia
giovedì 7 giugno 2012
"L'Emilia è quel pezzo di terra voluto da Dio per permettere agli uomini
di costruire la Ferrari. Gli Emiliani sono così. Devono fare una
macchina? Loro ti fanno una Ferrari, una Maserati e una Lamborghini.
Devono fare una moto? Loro costruiscono una Ducati. Devono fare un
formaggio? Loro si inventano il Parmigiano Reggiano. Devono fare due
spaghetti? Loro mettono in piedi la Barilla. Devono farti
un caffè? Loro ti fanno la Saeco. Devono trovare qualcuno che scriva
canzonette? Loro ti fanno nascere gente come Dalla, Morandi, Vasco,
Liga. Devono farti una siringa? Loro ti tirano su un'azienda
biomedicale. Devono fare 4 piastrelle? Loro se ne escono con delle
Maioliche. Sono come i giapponesi, non si fermano, non si stancano, e se
devono fare una cosa, a loro piace farla bene e bella, ed utile a
tutti... Ci saranno pietre da raccogliere dopo un terremoto... Loro alla
fine faranno cattedrali!"
da IL RESTO DEL CARLINO
da IL RESTO DEL CARLINO
lunedì 4 giugno 2012
Quelli che:“vacca ragàz moc’bròt lavòr, anche se mi ha svegliato mia moglie perché io non m’ero accorto di niente. Mè a tireva avanti a spiguzér!’’.
Quelli che “sabèt a un zèrt punt a gh’ èra un vèint che mè a iò pinsè subèt teimp da teremòt!”.
Quelli che “a cherdìva d’avergh un camion dal spurgo impiè sàta cà”.
Quelli che “a parìva d’eser inzèma al Tagadà ai Baracòun!”.
Quelli che “al me càn ...l...’iv...a... sintì tòt mez’ora prèma: el bèsti el ghàn na sensibiltè…”. Quelli che “sèint mo chè ca balàm ancàra…quast ché l’è minim un quàter virgola trii ed magnitudo”.
Quelli che “moxa diit?! Quast ché a srà minim minim un zìnc e du in dla schèla Richter!”.
Quelli che “il sussultorio è lofi un bel po’, ma l’ondulatorio l’è dimàndi pèz!”.
Quelli che “mi ricordo quando ha tirato nel ’72… ziocà se abiàm balàto! Credevo che ci fosse della maràia sotto al letto!”.
Quelli che “a Modena siam fortunati perché sotto ciabiàm l’acqua”.
Quelli che invece “sotto ciabiàm la sabbia”.
Quelli che invece sotto “ciabiàm un cimitero pellerossa maledetto”.
Quelli che “mo chissà che cosa ciabiàmo…”.
Quelli che “l’unico lavoro da fare in quei casi qui è mettersi sotto al muro portante” e quelli che hanno l’open space e il muro portante non lo trovano.
Quelli che “comunque nella bassa ciànno ‘na grinta che si tirano su in cinque minuti, a t’al dègh mè!”.
Quelli che “mo boia d’un mànd lèder c’at gnèsa n’azidèint al teràmòt… an psìva menga tirèr a Montecitorio invece che a Finèl o a Miràndla?”.
Quelli che “chissà adèsa al parmigiano sàl gnarà a custèr…”.
Quelli che “comunque al s’era capì che la Notte Bianca la porta sfiga”.
Quelli che “più che la Notte Bianca le mèi dir la Notte Maya”.
Quelli che “bèmo ragàz, asrà la sugestiòun mo da quando c’è stato il terremoto tòt el voltic’am mèt a séder inzèma al water am pèr d’ èser in berca:am bàla la tèra sàta i pè!”.
Quelli che a partire dalle 4.04 della notte tra sabato 19 e domenica 20 maggio 2012 hanno una crepa e un mucchietto di macerie nel cuore: tutti quanti noi emiliani.
Quelli che “sabèt a un zèrt punt a gh’ èra un vèint che mè a iò pinsè subèt teimp da teremòt!”.
Quelli che “a cherdìva d’avergh un camion dal spurgo impiè sàta cà”.
Quelli che “a parìva d’eser inzèma al Tagadà ai Baracòun!”.
Quelli che “al me càn ...l...’iv...a... sintì tòt mez’ora prèma: el bèsti el ghàn na sensibiltè…”. Quelli che “sèint mo chè ca balàm ancàra…quast ché l’è minim un quàter virgola trii ed magnitudo”.
Quelli che “moxa diit?! Quast ché a srà minim minim un zìnc e du in dla schèla Richter!”.
Quelli che “il sussultorio è lofi un bel po’, ma l’ondulatorio l’è dimàndi pèz!”.
Quelli che “mi ricordo quando ha tirato nel ’72… ziocà se abiàm balàto! Credevo che ci fosse della maràia sotto al letto!”.
Quelli che “a Modena siam fortunati perché sotto ciabiàm l’acqua”.
Quelli che invece “sotto ciabiàm la sabbia”.
Quelli che invece sotto “ciabiàm un cimitero pellerossa maledetto”.
Quelli che “mo chissà che cosa ciabiàmo…”.
Quelli che “l’unico lavoro da fare in quei casi qui è mettersi sotto al muro portante” e quelli che hanno l’open space e il muro portante non lo trovano.
Quelli che “comunque nella bassa ciànno ‘na grinta che si tirano su in cinque minuti, a t’al dègh mè!”.
Quelli che “mo boia d’un mànd lèder c’at gnèsa n’azidèint al teràmòt… an psìva menga tirèr a Montecitorio invece che a Finèl o a Miràndla?”.
Quelli che “chissà adèsa al parmigiano sàl gnarà a custèr…”.
Quelli che “comunque al s’era capì che la Notte Bianca la porta sfiga”.
Quelli che “più che la Notte Bianca le mèi dir la Notte Maya”.
Quelli che “bèmo ragàz, asrà la sugestiòun mo da quando c’è stato il terremoto tòt el voltic’am mèt a séder inzèma al water am pèr d’ èser in berca:am bàla la tèra sàta i pè!”.
Quelli che a partire dalle 4.04 della notte tra sabato 19 e domenica 20 maggio 2012 hanno una crepa e un mucchietto di macerie nel cuore: tutti quanti noi emiliani.
venerdì 1 giugno 2012
Puoi spezzare la nostra terra, ma non il nostro coraggio.
Gentile Sig. Terremoto, c'è una cosa che non hai capito della mia terra, ora te la racconto:
Per chiamarci non basta una parola sola : Emilia Romagna, Emiliano
Romagnoli, ce ne vogliono almeno due; e anche un trattino per unirle, e
poi non bastano neanche quelle.
Perché siamo tante cose, tutte
insieme e tutte diverse, un inverno continentale, con un freddo che ti
ghiaccia il respiro, e una estate... tropicale che ti scioglie la testa,
e a volte tutto insieme come diceva Pierpaolo Pasolini, capaci di avere
un inverno con il sole e la neve, pianure che si perdono piatte
all’orizzonte, e montagne fra le più alte d’italia, la terra e l’acqua
che si fondono alle foci dei fiumi in un paesaggio che sembra di essere
alla fine del mondo.
Città d’arte e distretti industriali, le
spiagge delle riviere che pulsano sia di giorno che di notte, e spesso
soltanto una strada o una ferrovia a separare tutto questo; e noi le
viviamo tutte queste cose, nello stesso momento, perché siamo gente che
lavora a Bologna, dorme a Modena, e va a ballare a Rimini come diceva
Pier Vittorio Tondelli, e tutto ci sembra comunque la stessa città che
si chiama Emilia Romagna.
Siamo tante cose, tutte diverse e tutte
insieme, per esempio siamo una regione nel cuore dell’Italia, quasi al
centro dell’Italia, eppure siamo una regione di frontiera, siamo anche
noi un trattino, una cerniera fra il nord e il sud, e se dal nord al sud
vuoi andare e viceversa devi passare per forza da qui, dall’Emilia
Romagna, e come tutti i posti di frontiera, qualcosa da ma qualcosa
prende a chi passa, e soprattutto a chi resta, ad esempio a chi è venuto
qui per studiare a lavorare oppure a divertirsi e poi ha decido di
rimanerci tutta la vita… in questa terra che non è soltanto un luogo, un
posto fisico dove stare, ma è soprattutto un modo di fare e vedere le
cose.
Perché ad esempio qui la terra prende forma e diventa vasi e
piastrelle di ceramica, la campagna diventa prodotto, e anche la notte e
il mare diventano divertimento, diventano industria, qui si va, veloci
come le strade che attraversano la regione, così dritte che sembrano
tirate con il righello.
E si fa per avere certo, anche per essere,
ma si fa soprattutto per stare, per stare meglio, gli asili, le
biblioteche, gli ospedali, le macchine e le moto più belle del mondo.
In nessun altro posto al mondo la gente parla così tanto a tavola di
quello che mangia, lo racconta, ci litiga, l’aceto balsamico, il ripieno
dei torellini, la cottura dei gnocchini fritti e della piadina e mica
solo questo, sono più di 4000 le ricette depositate in emilia romagna;
ecco la gente lo studia quello che mangia, perché ogni cosa, anche la
più terrena, anche il cibo, anche il maiale diventa filosofia, ma non
resta lassù per aria, poi la si mangia. se in tutti i posti del mondo i
cervelli si incontrano e dialogano nei salotti, da noi invece lo si fa
in cucina, perché siamo gente che parla, che discute, che litiga, gente
che a stare zitta proprio non ci sa stare, allora ci mettiamo insieme
per farci sentire, fondiamo associazioni, comitati, cooperative,
consorzi, movimenti, per fare le cose insieme, spesso come un motore che
batte a quattro tempi, con una testa che sogna cose fantastiche, però
con le mani che davvero ci arrivano a fare quelle cose li, e quello che
resta da fare va bene, diventa un altro sogno.
A Volte ci riusciamo
a volte no, perché tante cose spesso vogliono dire tante
contraddizioni. Che spesso non si fondono per niente, al contrario non
ci stanno proprio, però convivono sempre.
Tante cose tutte diverse, tutte insieme, perché questa è una regione che per raccontarla un nome solo non basta.
Ora ti ho raccontato quello che siamo, non credere di farmi o farci
paura con due giri di mazurca facendo ballare la nostra terra, io questa
terra l’amo e come mi ha detto una persona di Mirandola poche ore fa…
questa è la mia casa e io non l’abbandonerò mai. [Marco Barbieri - San
Giovanni in Persiceto]
mercoledì 9 maggio 2012
Battleship
Gli scienziati americani individuano il pianeta “G”, con caratteristiche
simili alla Terra e potenziale presenza di vita al suo interno, e
inviano un segnale di contatto da una postazione nelle Hawaii. Mentre la
marina militare americana è in procinto di compiere un'esercitazione
nel Pacifico, la risposta aliena arriva, pericolosissima, e dalle
profondità siderali si tuffa in quelle oceaniche. Il marine Alex Hopper,
fino a quel momento testardo e inconcludente, si ritrova a capitanare
l'unica nave superstite nei dintorni e a dover prevenire ad ogni costo
un'invasione globale della Terra.
Kolossal catastrofico, ispirato dal gioco della Hasbro, come già Transformers e G.I. Joe, e sceneggiato dalle penne di Red, Battleship non si fa mancare nulla: il ribelle coraggioso ma senza disciplina, che non conosce ancora cosa sia la leadership (un atto di solidarietà, per esempio), che ama corrisposto la bionda figlia del capo, e dovrà raccogliere l'eredità del fratello e sostituire il suo orizzonte di colluttazione con quello più utile di collaborazione. Ma non c'è solo Top Gun, nel meccanismo cardiaco di questo film, ci sono anche gli extraterrestri col tallone di Achille (stavolta non è il raffreddore ma un difetto di vista), il nerd quattrocchi (“l'avevo detto io”) e la corazzata Missouri, novant'anni dopo il Potemkin. Troppo? Probabilmente sì, anche perché si potrebbe continuare. Manipolando le dimensioni, il film di Peter Berg principia nello spazio aperto per arrivare man mano a quello angusto e corpo a corpo dei corridoi del cacciatorpediniere, rimbalzare quindi sul monitor di un computer e rifondare un piccolo nuovo mondo tutto su una nave, sfruttando la sapienza del passato (la vecchia ciurma) con l'umiltà acquisita nel presente e la missione di salvare il futuro. Quando l'operazione è così smaccata non ha nemmeno più senso parlare di retorica. È molto più interessante constatare come 2 più 2 non faccia 4: l'accumulo di elementi altrove funzionanti non dà la somma sperata e porta invece vicino alla parodia, che appunto ripropone elementi del testo che utilizza (in questo caso del genere cinematografico di riferimento) portandoli all'assurdo o ibridandoli con esso. Dall'ineffabile entrata in scena di Brooklyn Decker, ancora in un clima di tensione e di premessa narrativa apparentemente compunta, il film scivola lentamente lungo questa china farsesca fino a prenderne coscienza –pare- e cavalcare l'onda che ha alzato: dal momento in cui Kitsch, Rihanna e compagni mettono piede sulla corazzata, infatti, il gioco si fa scoperto e il commento musicale adottato lo testimonia. Il divertimento non manca, ma abbiamo visto “war games” migliori.
Kolossal catastrofico, ispirato dal gioco della Hasbro, come già Transformers e G.I. Joe, e sceneggiato dalle penne di Red, Battleship non si fa mancare nulla: il ribelle coraggioso ma senza disciplina, che non conosce ancora cosa sia la leadership (un atto di solidarietà, per esempio), che ama corrisposto la bionda figlia del capo, e dovrà raccogliere l'eredità del fratello e sostituire il suo orizzonte di colluttazione con quello più utile di collaborazione. Ma non c'è solo Top Gun, nel meccanismo cardiaco di questo film, ci sono anche gli extraterrestri col tallone di Achille (stavolta non è il raffreddore ma un difetto di vista), il nerd quattrocchi (“l'avevo detto io”) e la corazzata Missouri, novant'anni dopo il Potemkin. Troppo? Probabilmente sì, anche perché si potrebbe continuare. Manipolando le dimensioni, il film di Peter Berg principia nello spazio aperto per arrivare man mano a quello angusto e corpo a corpo dei corridoi del cacciatorpediniere, rimbalzare quindi sul monitor di un computer e rifondare un piccolo nuovo mondo tutto su una nave, sfruttando la sapienza del passato (la vecchia ciurma) con l'umiltà acquisita nel presente e la missione di salvare il futuro. Quando l'operazione è così smaccata non ha nemmeno più senso parlare di retorica. È molto più interessante constatare come 2 più 2 non faccia 4: l'accumulo di elementi altrove funzionanti non dà la somma sperata e porta invece vicino alla parodia, che appunto ripropone elementi del testo che utilizza (in questo caso del genere cinematografico di riferimento) portandoli all'assurdo o ibridandoli con esso. Dall'ineffabile entrata in scena di Brooklyn Decker, ancora in un clima di tensione e di premessa narrativa apparentemente compunta, il film scivola lentamente lungo questa china farsesca fino a prenderne coscienza –pare- e cavalcare l'onda che ha alzato: dal momento in cui Kitsch, Rihanna e compagni mettono piede sulla corazzata, infatti, il gioco si fa scoperto e il commento musicale adottato lo testimonia. Il divertimento non manca, ma abbiamo visto “war games” migliori.
mercoledì 25 aprile 2012
The Raven
Nel 1849 Edgar Allan Poe vive a Baltimora in pessime condizioni
economiche, elemosinando bevute nelle locande e qualche angolo nei
giornali locali per pubblicare le sue poesie. Unica luce della sua
esistenza è Emily, la giovane e ricca figlia di un militare in pensione,
che lo scrittore è intenzionato a sposare contro il fermo volere del
padre. Una notte, la polizia ritrova il cadavere di due donne, una madre
e una figlia, in un appartamento chiuso dall'interno senza possibili
vie di fuga. L'ispettore Emmett Fields riconosce nella scena
dell'omicidio gli stessi dettagli narrati da Poe nel racconto I delitti della Rue Morgue
e decide di coinvolgerlo nelle indagini. Lo scrittore diviene così suo
malgrado l'unica persona in grado di interpretare gli indizi lasciati
sul luogo dall'estimatore assassino.
Prima ancora di instillarsi come un potente veleno in tutti i thriller e gli horror della storia del cinema, Edgar Allan Poe ha dato vita al romanzo giallo così come ancora oggi lo conosciamo. Dando un'interpretazione macabra e fantasiosa a quegli ultimi giorni avvolti nel mistero che ne hanno preceduto la morte, The Raven utilizza un espediente metaletterario non dissimile da quello messo in gioco da Shakespeare in Love: trasformare uno scrittore realmente esistito in un personaggio delle sue opere. Ma più che essere un raffinato esercizio stilistico di cultura letteraria, The Raven è un “serial thriller” che gioca con la fantasia di Poe unicamente come pretesto per realizzare una catena di sanguinosi delitti e costruirci attorno un racconto del mistero. Niente a che vedere, quindi, né con Roger Corman, né con Vincent Price; piuttosto il film è un tentativo di calcare il successo del moderno Sherlock Holmes di Guy Ritchie e di fare del fervido scrittore un detective d'azione, meno incline al decadentismo bohémien che alle corse contro il tempo e alla logica abduttiva.
Se il regista di V per Vendetta fa il copycat fra le atmosfere neogotiche di From Hell, gli omicidi efferati di Saw e i titoli di testa arty di David Fincher, gli sceneggiatori compiono un lavoro simile creando un'opera di cartapesta in cui scampoli dei delitti di Poe vengono applicati sui canoni più obsoleti e le soluzioni più pedestri del mystery.
In questo “ritratto ovale” senza una vera anima, né orrorifica, né d'azione, John Cusack è chiamato a posare un po' come Monsieur Dupin e un po' come uno degli scrittori dei romanzi di Stephen King, ma senza riuscire a trasmettere né l'ironica arguzia del primo né le ossessioni suggestive dei secondi. Così, orfana del proprio lirismo immaginifico e intrappolata in una storia senza spunti accattivanti o seducenti, alla figura di Poe non restano che le uniche parole pronunciate dal suo Corvo: “Mai più”.
Prima ancora di instillarsi come un potente veleno in tutti i thriller e gli horror della storia del cinema, Edgar Allan Poe ha dato vita al romanzo giallo così come ancora oggi lo conosciamo. Dando un'interpretazione macabra e fantasiosa a quegli ultimi giorni avvolti nel mistero che ne hanno preceduto la morte, The Raven utilizza un espediente metaletterario non dissimile da quello messo in gioco da Shakespeare in Love: trasformare uno scrittore realmente esistito in un personaggio delle sue opere. Ma più che essere un raffinato esercizio stilistico di cultura letteraria, The Raven è un “serial thriller” che gioca con la fantasia di Poe unicamente come pretesto per realizzare una catena di sanguinosi delitti e costruirci attorno un racconto del mistero. Niente a che vedere, quindi, né con Roger Corman, né con Vincent Price; piuttosto il film è un tentativo di calcare il successo del moderno Sherlock Holmes di Guy Ritchie e di fare del fervido scrittore un detective d'azione, meno incline al decadentismo bohémien che alle corse contro il tempo e alla logica abduttiva.
Se il regista di V per Vendetta fa il copycat fra le atmosfere neogotiche di From Hell, gli omicidi efferati di Saw e i titoli di testa arty di David Fincher, gli sceneggiatori compiono un lavoro simile creando un'opera di cartapesta in cui scampoli dei delitti di Poe vengono applicati sui canoni più obsoleti e le soluzioni più pedestri del mystery.
In questo “ritratto ovale” senza una vera anima, né orrorifica, né d'azione, John Cusack è chiamato a posare un po' come Monsieur Dupin e un po' come uno degli scrittori dei romanzi di Stephen King, ma senza riuscire a trasmettere né l'ironica arguzia del primo né le ossessioni suggestive dei secondi. Così, orfana del proprio lirismo immaginifico e intrappolata in una storia senza spunti accattivanti o seducenti, alla figura di Poe non restano che le uniche parole pronunciate dal suo Corvo: “Mai più”.
La mappa del destino di Glenn Cooper
Per settencento anni è rimasto nascosto in un muro dell'abbazia. Poi una scintilla ha scatenato un incendio e il muro è crollato. Stupito, l'abate Menaud sfoglia quel volume impreziosito da disegni di animali e di piante. E' scritto in codice, ma le prime parole sono in latino: Io, Barthomieu, monaco dell'abbazia di Ruac, ho duecentoventi anni. E questa è la mia storia.
Per migliaia di anni è rimasto immerso nell'oscurità. Poi un'intuizione ha squarciato le tenebre. Incredulo, l'archeologo Luc Simard cammina in quel grandioso complesso di caverne, interamente decorate con splendidi dipinti rupestri. E arriva all'ultima grotta, la più sorprendente, dove sono raffigurate alcune piante: le stesse riprodotte nell'enigmatico manoscritto medievale.
Per un tempo indefinibile è rimasto avvolto nel mistero. E' stato custodito da santi e da assassini, è stato una fonte di vita e una ragione di morte. Poi un imprevisto ha rischiato di svelarlo agli occhi del mondo. Spietati, gli abitanti di Ruac non hanno dubbi: i forestieri devono essere fermati. Perché la cosa più importante è difendere il loro segreto. A ogni costo.
Per migliaia di anni è rimasto immerso nell'oscurità. Poi un'intuizione ha squarciato le tenebre. Incredulo, l'archeologo Luc Simard cammina in quel grandioso complesso di caverne, interamente decorate con splendidi dipinti rupestri. E arriva all'ultima grotta, la più sorprendente, dove sono raffigurate alcune piante: le stesse riprodotte nell'enigmatico manoscritto medievale.
Per un tempo indefinibile è rimasto avvolto nel mistero. E' stato custodito da santi e da assassini, è stato una fonte di vita e una ragione di morte. Poi un imprevisto ha rischiato di svelarlo agli occhi del mondo. Spietati, gli abitanti di Ruac non hanno dubbi: i forestieri devono essere fermati. Perché la cosa più importante è difendere il loro segreto. A ogni costo.
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